Entrare nello show-room di Amini Carpets in via Borgogna 7 a Milano è un po’ come entrare in un tempio dedicato alla contemplazione bellezza.
Si è accolti in uno spazio meditativo, rasserenante e avvolgente, in cui lo sguardo è rapito dalla continuità delle pareti rivestite in calce in grado di emanare luminosità.
L’esperienza diventa così quasi mistica: si ha la sensazione di entrare in uno spazio sacro, in cui veri protagonisti sono i tappeti, disposti non solo sul pavimento ma anche sulle pareti, come fossero vere e proprie opere d’arte.

In effetti, la filosofia di Amini Carpets è proprio quella di intendere il tappeto non solo come un oggetto di arredo, ma come un pezzo unico, in grado di esprimere una volontà artistica ben precisa.
La storia di Amini Carpets ha origine nel 1962 quando Sultan Amini fonda, in Afghanistan, la Amini Brothers Company, per produrre e commercializzare tappeti locali.
Il passo successivo porta la compagnia a espandersi in Europa, inizialmente in Germania, dove il progetto viene ampiamente apprezzato, permettendo alla compagnia di trovare spazio nel mercato occidentale.
La forza del progetto sta nell’aver messo insieme “le origini, la tradizione e le istanze moderne” con il fine di creare un prodotto in cui è presente la tradizione afghana grazie all’alta qualità della tecnica artigianale, declinata però in un linguaggio contemporaneo, nel quale dialogano contaminazioni provenienti da mondi distanti. Così nascono i tappeti Amini, dall’incontro fra i migliori artigiani di Afghanistan, Nepal, Persia, India, Marocco e Turchia, e la creatività di designer e artisti contemporanei.

Non stupisce allora scoprire che Amini Carpets abbia partecipato nel 2017 alla 57° Biennale Internazionale d’arte di Venezia con il progetto Woven Forms, esposto a Palazzo Querini Benzon, una linea di tappeti in edizione limitata, in cui l’Arte e il tappeto si incontrano.
Il progetto, realizzato in collaborazione con la galleria newyorkese R&Company, ha visto 10 artisti, designer di fama internazionale e creativi emergenti confrontarsi con la realtà del tappeto, caratterizzata da una ricca tradizione iconografica, iconologica, tecnica che, in questo caso, non è stata avvertita come un ostacolo, ma come una sfida avvincente per superare i propri limiti.
Capita spesso infatti che case produttrici di tappeti si limitino a stampare l’opera dell’artista sul tappeto; in questo caso invece agli artisti e designer coinvolti è stato chiesto di abbandonare la propria tecnica artistica per misurarsi con le problematiche del progetto tessile, adattando il proprio stile alla materia e al processo di creazione del tappeto.
I dieci artisti e designer coinvolti (Dana Barnes, David Wiseman, Hun-Chung Lee, Katie Stout, Lluis Lleo, Renate Müller, Rogan Gregory, Thaddeus Wolfe, The Haas Brothers, Wendell Castle) si sono presto resi conto che confrontarsi con la creazione di un tappeto richiedeva loro di cambiare completamente il proprio approccio, fin dalla fase progettuale.
Gli Haas Brothers, designer texani dallo stile ludico e psichedelico, hanno reinterpretato il tappeto di pellame animale “per creare un bestiario dove paleontologia e fantasia si sovrappongono”.

Il ceramista e designer coreano Hun-Chung Lee ha unito la tradizione coreana e quella dei mandala tibetani creando un pattern delicato, ma solido che ricorda le sue creazioni in ceramica.

Il giovane designer americano Thaddeus Wolfe, specializzato nella lavorazione del vetro, ha ripreso i grafismi tipici del suo lavoro, segni che sulla lana assumono un movimento nuovo e inaspettato, in grado di ipnotizzare.

Scommessa difficile per Amini Carpets è stata poi quella di trasportare il lavoro dello stilista e scultore americano Rogan Gregory nella forma morbida del tappeto. La sua scultura, caratterizzata da un sapiente gioco di vuoti e pieni, ombre e luci, si traduce in un tappeto scultoreo, dove grandi fori rimandano alle impronte lasciate da animali ancestrali nel corso del tempo.

Il progetto si è rilevato così una sfida sia per gli artigiani che per gli artisti, sfida che però ha portato ad uno scambio di esperienze, di conoscenze e ad un arricchimento reciproco.
Proprio per questo l’esperienza ha trovato spazio alla Biennale dell’anno scorso, il cui tema Viva Arte Viva, ben si prestava a questo scambio di idee e padronanze che Amini Carpets ha permesso. Infatti, come gli stessi artisti coinvolti hanno sostenuto, il progetto non si è svolto in modo meccanico, automatizzato, ma è stato “un’ esperienza di vita”, in cui artisti e artigiani hanno lavorato in stretto contatto, nelle fabbriche di Amini a Katmandu, in Nepal, nell’ottica di un continuo scambio reciproco.
Inoltre è importante sottolineare come la creazione dei tappeti abbia permesso agli artisti di raggiungere una forma d’arte maggiormente collettiva e comunitaria, sempre in sintonia con lo spirito della Biennale dell’anno scorso: i tappeti infatti sono assolutamente utilizzabili, opere d’arte vivibili, in grado di regalare un’esperienza multi-sensoriale.
Si tratta quindi di un’arte viva, creata da artisti che si sono messi in gioco, cercando uno scambio con lo sconosciuto e senza paura di avere un confronto diretto con noi, dandoci così la possibilità di “camminare sull’arte”.
Ludovica Matarozzo
Crediti fotografici: Amini Carpets